Sarebbe interessante immaginare cosa direbbero Chanel, Lanvin, Madame Gres, Vionnet, prime donne ad essere non soltanto creatrici indiscusse di moda ma anche fondatrici ed imprenditrici di marchi omonimi se fossero ancora in vita; come, cioè, guarderebbero al fenomeno di Gender Equality all’interno di un settore che, a livello internazionale, se nel 2021 vede la presenza femminile crescere del 95%, secondo una ricerca di Nextail, Fashion Newest Ceo’s Report sulla presenza di leadership femminile nel comparto creativo, di passi avanti ne deve ancora necessariamente fare. Ed a ragion di logica.
Sappiamo, infatti, quanto e come le politiche aziendali, volte a comprendere all’interno dei loro asset strategici le logiche di “diversity & inclusion”, stiano lavorando affinchè ai temi caldi, anzi, caldissimi, della sostenibilità ambientale e della differenza di culture e di orientamento sessuale, si affianchi sempre di più anche la parità di genere e la presenza di quote rosa all’interno anche – ed a volte, soprattutto – del sistema Moda.
Ma lo start c’è stato ed è stato importante e massivo. Basti pensare al cambiamento storico per alcuni brand che hanno deciso di sostituire figure femminili ai ruoli storicamente maschili di ceo (chief exectuive officier); è andata così a Coty, Kylie Beauty, J.Crew, nel settore del beauty, così come allo storico marchio di fast fashion H&M che ha visto spiccare il volo nel nome di Helena Helmersson, prima persona al di fuori della famiglia che non facesse parte del gotha decisionale del gruppo svedese; ed ancora la nomina di Sonia Syngal come presidente e Ceo di Gap e Lauren Holbert, primo ceo di un brand sportivo, Dick Sporting Goods. Ma una domanda nasce spontanea: come è stato possibile e perché questo cambiamento così improvviso? Semplice? Non credo e nemmeno sufficiente la risposta, se rendiamo noto che l’80% degli studenti delle scuole di moda sono donne così come il 75% degli impiegati nel settore del retail.
Non sufficiente, dicevamo, perché sappiamo che la pandemia da Covid-19 ed il conseguente adattamento della maggior parte delle aziende anche di moda alla tecnologia ha iniziato a puntare il focus sulla ricerca di figure non necessariamente provenienti dal mondo del Fashion – né di esperienze, né di studi – ma di professionisti e professioniste in grado di assolvere a compiti ove il tech stringa la mano ad un concetto “human” quanto più necessario oggi, per il bene dell’azienda stessa, sì, ma soprattutto della collettività globale.
Quindi, siamo felici che il trend sia in aumento, così come sorridiamo di fronte a direttrici creative del calibro di Maria Grazia Chiuri per Dior, che pone l’accento femminista in ogni millimetro della sua ricerca culturale rendendola abito, di Miuccia Prada la quale, nonostante in tandem – da lei voluto, ndr – con un genio come Raf Simons, ancora ci insegna che il parlare ed il linguaggio sono fondamentali alla comprensione di una decodifica di attualità che solo la Moda riesce a rendere esteticamente etica.
Ed ancora, il teaser che attendiamo si renda palese di un ritorno di Phoebe Philo dopo Celine, che se non porterà inzialmente numeri interessanti sicuramente ci farà balzare dalle sedie davanti ai nostri schermi per la bellezza della sua moda. E di nomi ce ne sono e ce ne sarebbero ancora, soprattutto se andassimo a prendere in esame i giovani talenti, tra i più colpiti dalla crisi economica pandemica, che vedono donne all’attivo della loro intelligenza creativa ma al passivo di risorse per andare avanti. Ed ancora, quindi, la domanda: perché?
Qui, davvero facile la risposta: perché serve un Sistema Moda non soltanto in alcune parti del mondo ma anche, per esempio, in Italia, ove il label Made in Italy, una volta lascia passare per qualsivoglia ambito, deve e dovrà necessariamente porre rimedio riunendo menti e maestranze che riportino la seconda voce economica del Bel Paese a comprendere che senza sistema non c’è futuro, così come senza inclusione e rispetto del genere non vi può essere democrazia.
La strada, se consideriamo fattori importanti come il solo fatto di doverne ancora ed ancora parlare anche agli studenti delle più grandi ed importanti università internazionali, è ancora lunga e dovrà per forza di cose raccogliere le voci, ancora troppo silenti, anche degli esponenti maschili di un settore che ancora detiene il segno positivo dalla loro parte e che dovrebbe prendere esempio dal direttore creativo di Gucci Alessandro Michele il quale con il progetto “Chime for Change” mette la parità di genere al primo posto, facendone un’analisi, raccogliendo fondi, invitando al ragionamento ed al rispetto, alzando la voce contro la violenza di genere che esuli dal contenuto vestimentario pur abbracciandolo, divenendo asse portante di una inclusività che se è di moda deve, però, non passare più inosservata o relegata soltanto ai numeri, ma portare la conoscenza e l’attenzione comunitaria a capire e comprendere, ad ascoltare ed esprimere, come la società si cambia se in ogni ambito riusciremo a determinare un cambiamento. E la moda lo sa. E dalla moda si può partire. Questo ce lo insegna la Storia. Questo dovremo insegnarlo noi a chi c’è oggi e a chi, insieme a noi, contribuirà a scrivere nuovi capitoli di una esistenza globale.
Per far questo, però, servono esempi concreti anche da chi tenta di governare le nostre democrazie perché se non si parte dalla politica per capire quanto la presenza di donne ai vertici di determinati campi sia oggi più che mai necessaria ci ritroveremo ad analizzare un trend in aumento soltanto nel parziale e non nella totalità generale di occupazione globale.
Allora, via le mimose almeno per un giorno, ma fiori tutto l’anno sui banchi del potere al fine di inebriare sensi e consensi di quella diversity and inclusion diventata chiave di un lucchetto che, ancora e troppe volte, nega l’apertura di luoghi inaccessibili perché dominati da un patriarcato desueto e a volte pericoloso.
Non solo l’8 Marzo. In cammino. Insieme.